Saddam e le Sugababes
A un anno dalla sua conclusione, delle tre settimane di guerra guerreggiata in Iraq non si ricorda quasi più nulla. È vero che in quei venti giorni immagini e resoconti dal fronte hanno monopolizzato schermi televisivi, siti internet, pagine di giornali, ma lo è altrettanto che la macchina informativa predisposta dagli stati maggiori congiunti di eserciti e media era stata tarata, con estrema accuratezza, per far filtrare notizie e sequenze non propriamente memorabili: la resa di un'intera divisione, che - come si è scoperto di lì a poco - consisteva nelle mani alzate di un solo ufficiale della medesima; la carrellata su alcune maschere antigas buttate in una trincea irachena a riprova dell'esistenza, certa, di armi di distruzione di massa; persino - nella versione italiana, come sempre la più irresistibile - le veementi proteste di una 'embedded' sui carenti servizi igienici di un campo base dei marine. Rispetto a questo frastuono più o meno indistinto, le corrispondenze di Tim Judah, basate su una tecnica semplice quanto ormai dimenticata - andare a vedere di persona ciò che accade, parlare con i testimoni, cercare di comporre un quadro coerente -, ottengono un esito di per sé miracoloso: il racconto dei 'fatti'. Anche quando, come nell'intelligente riflessione sul mestiere di inviato che apre il volume, questo significa constatare che in guerra "fra un bombardamento e l'altro non succede praticamente nulla": tutt'al più si alza il volume della televisione per parlare senza paura di essere ascoltati dai servizi di informazione del regime, e si diventa così fan del gruppo musicale del momento - le Sugababes.
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