Gogol' a Roma
Basta leggere che i versi giovanili di Rimbaud sono minati da "negligenza e goffaggine"; che per penetrare la grandezza di Tolstoj bisogna procedere oltre "quella cocciutaggine nel voler salvare la propria anima e se ne avanza l'altrui"; che l''Innominabile' di Beckett, se può apparire eccezionale ai profani, rischia di far "sorridere familiarmente lo psichiatra"; bastano insomma queste poche sequenze di apparente irriverenza blasfema per capire che non siamo di fronte a un critico di routine o a un cauto professore. Ci troviamo, infatti, in quella particolare regione della geografia letteraria composta dagli articoli di Tommaso Landolfi: quella regione, cioè, in cui lo scrittore più elusivo e idiosincratico del nostro Novecento rivela l'altra faccia del proprio understatement - nella radicalità tipica di chi si ostina a credere, dietro la maschera dell'ironia, "che la letteratura sia una cosa seria". È solo in nome di una acuta tensione conoscitiva e mai per gratuito spirito di provocazione che questi veri microsaggi procedono spesso contromano rispetto alle quiete certezze della vulgata. Ma Landolfi è illuminante anche laddove la sua analisi non produca ribaltamenti eversivi: come nei casi di Van Gogh, di Proust o del Gogol' a Roma che dà il titolo alla raccolta, "perenne forestiero" la cui estraneità di viaggiatore è metafora di una più vasta estraneità esistenziale. O come quando si concede fulminei scarti dai massimi sistemi - regalandoci così riflessioni irriverenti e antiaccademiche sulla filologia di un'edizione, sulla traduzione, sui limiti di ogni teoria della letteratura - e aperture a temi extraletterari quali la metafisica della roulette e il caos deterministico, la civiltà cibernetica e l'intelligenza degli animali.