Una civiltà ferita: l'India
Il rapporto di Naipaul con la terra - l'India - da cui i suoi antenati partirono un secolo fa per Trinidad è sempre stato aspro, teso, oscuro: "Per me l'India è un paese difficile. Le sono altempo stesso troppo vicino e troppo lontano". Ma proprio questo sentimento di consanguineità e insieme di opposizione sembra aver acuito lo sguardo dello scrittore, conferendogli il dono di una percezione snebbiata di cui molto raramente gli occidentali sono capaci in India. E l'occhio, in questo libro, segue quasi ossessivamente le tracce e i sintomi di una sola realtà: l'antica, non rimarginata ferita che, anche dopo l'indipendenza, sembra condannare l'India a uno stato di croinica inadeguatezza, come per una sottile vendetta storica - in qualche modo parallela a quella subita dalla Grecia - che colpisce i luoghi in cui prima che altrove il pensiero si è mostrato sovrano. Quanto più si procede nella sinuosa narrazione, tanto più ci si sente spinti verso amare conclusioni. Ma non perché l'autore indulga a teorizzazioni o sociologismi: Naipul parla sempre di ciò che ha visto, di ciò che ha udito, di ciò che ha indagato, e questo dà alla sua pagina una vividezza, un rilievo memorabili.
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