Vita da geni. 1920-1930
Robert McAlmon approdò nella Parigi degli Anni Venti come tanti altri giovani americani che volevano 'vivere'. Era percettivo, sardonico, poco accomodante. Soprattutto non si faceva troppo impressionare dai vari geni che si trovava accanto sugli sgabelli dei bar, spesso mentre stavano finendo di convincersi di essere dei geni. E in molti casi avevano ragione. Il primo fra questi, sempre osservato con una malcelata insofferenza unita all'ammirazione come una spezia, era James Joyce. Poco dopo Gertrude Stein, che procedeva per le strade con la sua uniforme e "i sandali con la punta che sembrava la prua di una gondola", coniò l'espressione "generazione perduta". Il gioco era fatto. Quanti libri sono stati scritti, da allora, sulla "festa mobile" di quegli anni. E non di rado perfino i protagonisti avrebbero finito per rappresentarsi come in un film in costume. Non così McAlmon. Forse perchè non diventò mai famoso come certi suoi amici, come Hemingway, come Fitzgerald, come Ezra Pound. Forse perchè non possedeva il loro genio. Ma aveva certamente lo sguardo snebbiato, la qualità del grande memoralista impertinente. Così ci ha lasciato, in quegli anni prodigiosi e spavaldi, il libro che più di ogni altro ci trasmette il senso tonificante dell'osservazione esatta - e di un'avvolgente ironia.
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