Punto di non ritorno
La voce che parla in questo romanzo appartiene a un uomo di cinema: qualcuno che il cinema non soltanto lo fa, ma lo subisce come forma dell'immaginazione. Sprofondato nel benefico buio pomeridiano di una sala qualunque, scopre che tutta la vita è un remake, il rimettersi in scena fra oggetti e gesti appena cambiati, di un unico repertorio di forme, la cui autorità sembra stabilità dagli astri. Ma che cos'è quella forma per una certa persona, per lui stesso? Il narratore la insegue da un capo all'altro di questo libro, della sua vita, fra tanti luoghi, personaggi, brandelli di frasi. Questa memoria erratica si fissa su alcune istantanee: dei ragazzi che giocano a poker, mentre una donna entra nella stanza e annuncia che Badoglio ha firmato l'armistizio; lo studio di Kawabata e Kyoto; l'odore di certe case di appuntamenti; un'isola del Mediterraneo, che sembra una quinta sul niente; un viaggio verso Est del giovane comunista che si accorge dell'orrore e tace. Che cosa tiene insieme tutto questo (che senza volerlo è anche una storia d'Italia per chiazze e schizzi dal '43 a oggi)? Per proteggere un'inguaribile adolescenza, e per obbedire ai richiami delle sue molte antenne, il narratore ha messo il piede in tante realtà, con prontezza e sicurezza nella percezione, ma ogni volta con prontezza, lo ha tirato indietro, rientrando in una vita "diaframmata dalla prudenza". Ma fra tutte c'è una realtà, invisibile, che non si adegua a quest'arte dello schivare: il puro tempo che passa, che include in sé la morte. E questa volta non si tratterà di schivare, ma di scrivere: come accade a un personaggio di questo libro, si impara l'arte di porre "orecchio allo scorrere del tempo. Non per fermarlo, ma per auscultarlo". E allora finalmente - incredulo, ilare e melanconico - il narratore saprà di aver superato il suo "punto di non ritorno".
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