Il conte di Saint-Germain
Lernet-Holenia "si muove con l'eleganza di un topo d'albergo in abito da sera, che vuol fare un colpo", scrisse Gottfried Benn. E quel "colpo" era un azzardo metafisico: costruire intrecci che avvolgano in ragnatele i mondi sovrapposti entro cui viviamo. Mai ciò è apparso così evidente come nel "Conte di Saint-Germain" (1948), il più vertiginoso fra i suoi intrecci, quello dove più chiaramente questo grande giocatore e avventuriero della narrazione ha accettato di giocare a carte scoperte. Secondo la leggenda, il conte di Saint-Germain è un immortale: figura equivoca e magica, traversa la storia del secolo XVIII e, da allora, riappare capricciosamente a punteggiare il corso degli eventi. Riappare anche nel titolo di questo romanzo, senza esserne il protagonista. Saint-Germain è qui, piuttosto, lo spettro che abita queste pagine come un'antica dimora. Sarebbe vano accennare al profilo della storia che in esse si racconta, a tal punto è ricca e polifonica la sua articolazione. La scena è una Vienna torbida e raggelante, alla vigilia dell'annessione dell'Austria da parte della Germania di Hitler, "quell'orribile austriaco", come qualcuno lo definisce in società. Ma, all'interno di tale cornice, sembra aprirsi una voragine nel tempo, dove incontriamo il ricordo di un assassinio impunito, ma anche un processo a Pilato messo in scena da alcuni collegiali; un vaticinio del conte di Saint-Germain sulla fine della Casa d'Austria, mentre intorno si svolge la guerra dei Sette Anni; due figure femminili opposte ed enigmatiche; le architetture cifrate dei Templari; un vecchio suicida ripescato in uno stagno; l'occhio dei portieri del Nuovo Regime; reminiscenze di fatti lontani che affiorano in persone che non li hanno vissuti o non dovrebbero esserne a conoscenza.
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