La mente prigioniera
"Questo libro fu scritto a Parigi nel 1951-1952, cioè in un periodo in cui gli intellettuali francesi, nella loro maggioranza, risentivano la dipendenza del loro Paese dall'aiuto americano e riponevano le loro speranze in un mondo nuovo all'Est, governato da un leader di incomparabile saggezza e virtù - Stalin". Così Milosz, con delicato sarcasmo, ha descritto, nella premessa all'edizione italiana, la situazione in cui nacque e apparve per la prima volta "La mente prigioniera" (1953). Ma al lettore spetta di riconoscere che cosa è questo libro oggi: il libro che una volta per tutte, prima che il dissenso russo potesse manifestarsi, prima di Solzenicyn, di Sinjavsij, di Zinov'ev, disse ciò che di essenziale vi è da dire sul sovietismo - e in particolare su quel colossale fenomeno di viltà dello spirito e cronico asservimento che ha contrassegnato il rapporto di milioni di intellettuali con il sovietismo stesso. A differenza di tanti dissidenti russi, Milosz parla con una terribile pacatezza: troppo cupa è la vicenda che ha vissuto perché la sua voce possa alterarsi. Ed è la voce, lo si sente ad ogni pagina, di un grande scrittore, di un abitante di quella vecchia, civilissima Europa dei popoli baltici, che furono "calpestati dall'elefante della Storia" senza che l'Occidente quasi se ne accorgesse.