Mimica
Agostino e Montagne si raccontano verso i quarant'anni, sotto l'impressione del lutto per la morte altrui. Come dire che, malgrado l'avviso di Dilthey nel famoso studio sull'autobiografia, il nostro morire, e l'onere di una memoria fedele come origine della storia, si possono pensare solo nell'ombra del ricordo di un altro.Rousseau e Nietzsche scrivono per offrirsi come esempi ai posteri, dopo essere stati sacrificati dai contemporanei. Commedianti e martiri, non sono nemmeno individui, ma paradigmi, già devoluti all'imitazione. Scrive Nietzsche a Burckhardt: "Quel che è sgradevole e nuoce alla mia modestia è il fatto che io sono ogni nome della storia".Heidegger non ha mai scritto un'autobiografia. Però in "Essere e tempo" sostiene che la misura della verità si ottiene rapportandolo a un morire solo nostro. Donde la condanna del lutto e del sacrificio come forme puramente oculari dove, a norma di catarsi, le esequie solenni ci rassicurano sul fatto che per l'intanto siamo vivi.Ma come potrei conoscere la mia fine se non l'avessi prevista negli altri? Se è così, se l'occhio e lo sguardo sono il presupposto dell'essere per la morte, allora una mimesi e una mimica precedono l'autentico, e il nostro più stretto essere in noi si costruisce nel miraggio e nel ricordo.E tuttavia: davvero gli eroi di Flaubert, che si nutrono di romanzi, vivono un'esperienza del nulla? Certamente. Ma d'altra parte questa vita è stata meno seria per avere rincorso ombre per essere stata dettata da illusioni?
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