Il nome che ora dico
"Ho perduto la mia patria." Così ha scritto Gustavo Sintora in un quaderno, ora nelle mani del figlio del suo grande amico il caporale Solé Vera. Ma la patria non è un paese, un territorio, un esercito o una bandiera: la patria perduta è una donna. La storia dell'amore tormentato tra il giovane Sintora e Serena, quindici anni più di lui e infelicemente sposata, si mescola alle vicende di un gruppo di soldati repubblicani abbandonati a se stessi alle porte di Madrid sotto assedio, durante la guerra civile. Il piccolo distaccamento ha l'insolito compito di organizzare spettacoli nei villaggi non ancora in mano ai falangisti, per esorcizzare la paura. Fachiri, maghi, toreri, ventriloqui, nani, cantanti e ballerine diventano così un punto di riferimento in questo mondo votato al caos. E insieme a loro sono protagonisti Montoya, il sognatore dall'accento francese; Ansaura il Gitano, che scandisce il tempo ripetendo all'infinito il nome della moglie; Corrons, il violento e ambiguo marito di Serena; Solé Vera, padre del narratore, e lo stesso Sintora che parla dai suoi quaderni. Mentre la mattanza cresce, i tradimenti, i dolori, le miserie si susseguono in un racconto a un tempo teso e picaresco, intriso della profonda malinconia delle umane vicende travolte dalle circostanze più nefaste. I giorni della terribile sconfitta sono gli stessi in cui i destini collettivi e individuali vengono spazzati via dall'universale e quotidiana banalità del male, in cui Sintora perde per sempre il suo amore. Lo accompagneranno per il resto della vita il rumore e il dolore della battaglia insieme al rimpianto che ha un solo nome, "il nome che ora dico: Serena".
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