Teoria del vedere. Sulla creazione dell’immagine
Quando muore a quasi sessant’anni, nel 1952, Władysław Strzemiński è un reietto della società, un uomo in miseria che si trascina solitario per le strade di Łódź in cerca di qualunque lavoro gli permetta di mettere qualcosa sotto i denti. Eppure solo trent’anni prima era un geniale artista, amico e collaboratore di poeti e drammaturghi, conosciuto e apprezzato anche fuori dai confini nazionali: l’esponente principale dell’«unismo», un’avanguardia che inseguiva una unità organica di trama, colore e composizione. In mezzo però c’era stata la Seconda guerra mondiale e soprattutto la presa del potere della dittatura sovietica, che aveva imposto nelle arti il realismo socialista, relegando Strzemiński e i suoi quadri nell’isolamento e nell’oblio. Questo libro, composto negli anni della guerra ma pubblicato solo postumo, raccoglie le riflessioni di Strzemiński nel periodo in cui insegnava pittura negli istituti russi e polacchi, prima di essere licenziato per le sue idee nel 1950. In queste pagine l’autore si interroga su cosa significhi «vedere » e sul perché le rappresentazioni cambino così tanto da un’epoca all’altra: dal Paleolitico a Rembrandt e Van Gogh, Strzemiński analizza – come spiega nella sua prefazione Francesco Cataluccio – «la storia della produzione di immagini dal punto di vista dell’occhio che guarda il mondo, lo ricorda a modo suo e, nel caso dell’artista, lo riproduce». Un’opera entusiasmante che, svelando la reciprocità dei fenomeni biologici, storici e sociali con quelli artistici, ci invita a osservare con sguardo più consapevole la bellezza e l’orrore che ci circondano.