Fuga. Su «Dove osano le aquile»

Fuga. Su «Dove osano le aquile»

Fuga è il punto esatto in cui lo sguardo puntuto e sardonico di Geoff Dyer incontra l'immaginazione del bambino che è stato; è il tributo arguto e graffiante al rapporto che instauriamo con i miti fondativi della nostra giovinezza. «Un esperimento letterario riuscito» - Francesco Pacifico, Robinson Un aereo militare sorvola i picchi innevati delle Alpi bavaresi. Scritte rosse a caratteri teutonici appaiono in sovraimpressione sullo schermo. Il ritmo martellante della colonna sonora si fa sempre più serrato mentre la cinepresa nell'abitacolo ci mostra lo sguardo truce di un Richard Burton visibilmente pensieroso e il volto di ghiaccio di un Clint Eastwood pietrificato nell'espressione facciale che avrà per tutta la pellicola: gli occhi strizzati e ridotti a due fessure. Sono i titoli di testa di Dove osano le aquile e lo schermo è quello della casa di Geoff Dyer, su cui queste immagini sono passate decine e decine di volte. Il film di Brian G. Hutton occupa un posto privilegiato nella memoria dell'autore ed è una sonda che penetra a fondo nel suo passato. Fuga è il punto esatto in cui lo sguardo puntuto e sardonico di Geoff Dyer incontra l'immaginazione del bambino che è stato; è il tributo arguto e graffiante al rapporto che instauriamo con i miti fondativi della nostra giovinezza.
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