Uomini nelle gabbie. Dagli zoo umani delle Expo al razzismo della vacanza etnica
Dal 1870 al 1940 l'Europa e gli Stati Uniti celebrarono le magnifiche sorti del mondo occidentale sul palcoscenico delle Esposizioni universali. Poco distante, nei villaggi etnici ricreati accanto ai padiglioni, andava in scena uno spettacolo angosciante: neri armati di lance, donne con i bambini al collo, pigmei, eschimesi, indios, tutti esposti perché i bianchi, i colonizzatori, potessero ammirarli o schernirli, sicuri come erano - come, forse, ancora siamo - del primato della razza bianca, del suo diritto a conquistare e dominare le altre razze. C'è Sarah, l'ottentotta dalle forme inusualmente pronunciate, esibita come una pruriginosa eccentricità biologica e poi studiata e sezionata come una cavia da laboratorio. C'è il pigmeo Ota Benga che, nel recinto degli animali, non può sorridere a meno che i visitatori non paghino qualche dollaro per vederne i denti aguzzi. C'è capo Geronimo, mostrato vinto e sconfitto perché nessuno dimentichi mai l'inferiorità degli indiani d'America. E ci sono le altre migliaia di esseri umani i cui nomi non sono mai stati registrati, tanta era la considerazione riservata alla loro dignità personale. A una prima, superficiale analisi può sembrare un fenomeno lontano nel tempo, da cui la nostra società ha ormai preso le doverose distanze, ma l'ultimo zoo umano risale al 2005, e il turismo della povertà che tanto successo riscuote in questi ultimi anni ripropone la medesima logica. Prefazione di Gian Antonio Stella.
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