Leopardi e l'angoscia
Michele Canalini segue il poeta di Recanati nei suoi spostamenti in Italia, da Milano a Firenze e Bologna sino a Napoli; e lo segue nella sua irrequietudine lungo un singolare percorso emotivo e gnoseologico, focalizzandosi sull'angoscia come unico e irriducibile strumento di conoscenza. Un po' come il topolino del racconto di Kafka, come ricorda Rita Mascialino nella Postfazione, "contento di vedere delle mura che restringano lo spazio, così che si avvicina alle mura, ma molto rapidamente le mura si fanno tanto vicine che il topo entra nell'ultima stanza oltre la quale non c'è più nessun rifugio e dove trova la trappola, il gatto che lo aspetta e se lo mangia dicendogli che deve solo cambiare direzione, cambiamento che non può più fare essendo ormai troppo tardi". Solo chi sperimenta le ristrettezze del proprio vivere, solo chi è messo con le spalle al muro dall'indigenza sentimentale di chi lo circonda, può reagire conoscendo la grandezza del proprio animo e può avvicinarsi al sapere dell'universo, facendo della poesia uno dei punti più alti della filosofia contemporanea. Giacomo Leopardi è tormentato nella sua esistenza dall'angoscia e proprio grazie a questa lascia al lettore di sempre i ritratti più belli e le sensazioni più "indefinite" che la lirica moderna abbia mai prodotto.
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