I disincantati
Il proprio destino di scrittore Budd Schulberg l'affidò a una specie di scabra epopea dell'America amara. Figlio del 'tycoon' della Paramount, e lui stesso, per un certo tempo, prediletto di Hollywood (da sue opere, vengono capolavori del cinema come "Il colosso d'argilla" e "Fronte del porto" e sua è la sceneggiatura di "Un volto nella folla"), ma anche comunista inciampato nelle reti del Mccarthismo, spesso e volentieri elesse il mondo di Hollywood quale osservatorio ideale. I retrobottega degli studios, scenari simbolici, per il mescolarsi in loro di patina dorata e durezza sostanziale, della leggenda americana frenetica e impietosa. E a questa e al suo rovescio, sono dedicati due romanzi. Il primo, "Perché corre Sammy?", racconta il farsi della leggenda: un piccolo fattorino ebreo sempre di corsa che diventa un potente produttore, sacrificando ogni cosa d'umano alla sua assetata ambizione. Il secondo, questo "I disincantati", al contrario si concentra sul come muore, in America, una leggenda. Uno scrittore grande e dimenticato, che ha avuto tutto, ed è stato travolto assieme a un mondo lussureggiante dalla crisi del '29, si lascia umiliare e consumare nel corpo e nella dignità in un ultimo infimo lavoro da sceneggiatore di filmetti. Dietro l'opera di Schulberg c'è sempre l'autobiografia, e dietro "I disancantati" c'è l'incontro reale con Francis Scott Fitzgerald, leggenda vivente e osservata mentre muore. "E' successo che a Hollywood, nel 1939, il produttore non era soddisfatto di una mia sceneggiatura e mi aveva fatto chiamare per avvertirmi che avevano messo un altro a lavorare su ciò che avevo scritto. Avremmo dovuto rivederla insieme. Quando ho chiesto chi fosse, mi ha risposto che era Francis Scott Fitzgerald. Ho pensato che scherzasse, perché credevo che Fitzgerald fosse morto, ma il produttore mi disse che non soltanto era vivo, ma si trovava nella stanza accanto, intento a leggere il mio lavoro".
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