Innocenza
Parafrasando Conrad, secondo cui il fine dello scrittore è "far udire, vedere, sentire, con la sola forza della parola scritta", si potrebbe dire che lo scopo dei dialoghi di Penelope Fitzgerald sia far partecipare il lettore alla conversazione che scorre tra i personaggi. È attraverso di essi che il lettore scivola, nel senso proprio, dentro la vicenda, e avverte la dimensione del tempo vivido: il presente dei protagonisti, che passa in un soffio, devia, che si sperde, intorno agli eventi, alle intenzioni, ai desideri, rendendoli malinconicamente fluidi e vani, sempre impari al compito che si prefiggono, e assolutamente irrisori rispetto all'esito cui tutto tende. È del tempo, il grande tema del Novecento letterario e filosofico, che la Fitzgerald "fa udire, vedere, sentire, con la sola forza della parola scritta" la tragica essenza. Ma sempre per mezzo della commedia. Per mezzo di personaggi medi, affaccendati, serissimi, concentrati intorno al problema dell'esistenza quotidiana. Così "Innocenza", che inscena la commedia degli errori che si svolge, spandendosi nei mille rigagnoli della giornata, tra Chiara Ridolfi, deliziosa e intraprendente creatura benefica, di nobile famiglia fiorentina fatta di originali decaduti, e il suo amato Salvatore Rossi, giovane medico, di brillanti speranze e povere origini, che ha deciso per tempo di non dipendere sentimentalmente da nessuno e si è dotato di una tenera corazza di cinismo. Siamo negli anni Cinquanta, in un'Italia ancora priva di tutto e animata da passioni pubbliche incandescenti. I due candidi amanti non riescono in nulla per assenza assoluta di malizia, ma li circondano gli amici pieni di risorse o ingenui, i parenti animati dei più benevoli istinti: e tutto serve solo a dimostrazione di come le migliori intenzioni aiutino ad allontanare gli obiettivi. Perché così è la vita.
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