Piccolo teatro
Ana María Matute ha scritto una grossa parte della sua opera, tra le più importanti della letteratura spagnola del Novecento, in età franchista, conoscendo la censura, e su temi spesso scabrosi come i turbamenti dell'adolescenza, o su vicende di passioni intense, ambigue, quasi torbide: spinte all'eccesso, o viceversa soffocate, nel clima ostile del conformismo e della maldicenza. Non stupisce quindi il tono allusivo, i soggetti fortemente metaforici quasi da parabola, le atmosfere fiabesche, e la penombra di un immanente mistero che avvolge ogni cosa: danno il carattere alla sua pagina, e la sua qualità contemporaneamente. In una immaginaria cittadina sul mare, che vive di pesca e di turisti, di cui si indovinano le tetre giornate deserte dell'inverno, e la ricchezza gelosa della propria distinzione dovuta più alla rendita di posizione che al dinamismo, si intrecciano i destini di quattro personaggi al margine della vita sociale, accelerando il loro compimento. Sono un ricchissimo proprietario venuto su dal nulla, vedovo solitario e ossessionato da un sogno di grandezza. Sua figlia, sprezzante selvaggia, eccentrica anche nel fisico, due occhi di diverso colore, permanentemente accompagnata dal mormorio di un ambiente che la tollera solo per rispetto alla famiglia di sua madre. Il ragazzino orfano cresciuto nel porto, con fama di idiota e fannullone. Il forestiero, biondissimo, elegante, grandioso, disceso dalla nave con un vento di esotico. Tra il ragazzino e l'avventuriero nasce un'amicizia ribalda. E scocca la scintilla dell'amore tra l'uomo biondo e la ragazza. E nulla vi è, per i luoghi e i tempi, di più sovversivo e portatore di disordine, di un'amicizia disinteressata tra diseguali, e del conteso amore.
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