L'assassinio di via Belpoggio
Con “L’assassinio di via Belpoggio” (1890), che precede di due anni il primo dei suoi grandi romanzi, “Una vita”, Svevo ci offre una narrazione intensa e serrata che rappresenta uno dei primi esempi di “noir” psicologico della letteratura italiana. Giorgio, giovane squattrinato della Trieste di fine Ottocento, uccide un suo conoscente per sottrargli del denaro. Dopo aver nascosto la refurtiva nel letto dell’amico che condivide con lui il misero appartamento in cui vive, pensa a come mettersi in salvo, ma qualcosa sembra trattenerlo. Proprio come per il Raskol’nikov di “Delitto e castigo”, quel qualcosa è fatto soprattutto di angoscia e senso di colpa; ma, diversamente dal grande personaggio dostoevskijano, Giorgio uccide quasi per caso, non ha nulla da dimostrare a se stesso, e in questo possiede almeno in parte già i tratti dell’inetto sveviano; in fondo, la sua incapacità di sottrarsi al proprio destino è più figlia di questa sua inconcludenza che non del suo rimorso. In questo novero di personaggi rientra anche il signor Maier della novella “Proditoriamente”, imprenditore rovinato da una truffa, che non sa risolversi a domandare un prestito all’amico di sempre – Reveni, al contrario di lui imprenditore di successo – per timore di essere umiliato da un rifiuto. Accadrà però qualcosa che renderà del tutto inutile questo suo rimuginare: «Il mondo continuava ma quell’avventura ne dimostrava l’intera nullità».