Giudici e razza nell'Italia fascista
1938: l'Italia si da una legislazione razziale che realizza la perfetta esclusione degli ebrei dalla comunità nazionale, la lesione della dignità della persona nei suoi fondamentali diritti, il completo annientamento della vita civile e di relazione, la mortificazione della identità sociale e culturale. I giudici sono chiamati a decidere questioni che riguardano la proprietà immobiliare e gli atti di disposizione patrimoniale, il trattamento previdenziale dei lavoratori ebrei, le limitazioni di status degli ebrei stranieri, la validità dei matrimoni celebrati tra ebrei e non ebrei, l'attribuzione della cognizione al giudice ordinario o all'autorità amministrativa. Giudici e giuristi in ogni processo sono costretti a fare i conti con una questione preliminare: in quale misura l'ordinamento giuridico italiano è stato modificato dall'introduzione della legislazione razziale, in quale misura ha opposto resistenza. Con i loro stratagemmi interpretativi e le loro invenzioni retoriche alcuni giuristi cercano di avvicinare il diritto alla giustizia. Ma in questa storia il diritto mostra tutti i suoi limiti. La dolorosa e scandalosa esperienza della legislazione razziale ci ammonisce a riflettere sul diritto e sulla legge: i due lembi di una ferita sempre aperta.
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