I canoni dello sguardo. Storia della cultura visiva tra Oriente e Occidente
Esistono vicende, nella storia umana, che hanno una dirompenza più inappariscente dei grandi sconvolgimenti, ma un rilievo e una durata ben maggiori. Per comprenderne le vere dimensioni sono d'ostacolo gli specialismi non dialoganti e gli arroccamenti sugli spalti identitari. Ce lo insegna in modo esemplare l'invenzione della prospettiva, argomento tra i più studiati di una storia dell'arte. Con mossa felicissima, Hans Belting spariglia le carte e mette in prospettiva la prospettiva stessa. Grazie alla sua indagine si chiariscono le alleanze tra pratiche pittoriche, dottrine artistiche, conoscenze scientifiche, e soprattutto si svela la fecondità di un paradosso: all'apice della sua fioritura, l'Occidente definì il canone percettivo, attraverso il quale ci appropriamo del mondo sotto forma di immagine, attingendo a una teoria della visione concepita quattro secoli prima da un matematico arabo nativo di Bassora, Alhazen, in un contesto religioso islamico che bandiva le immagini perché giudicate contraffazioni blasfeme della creazione di Dio. Lo scarto temporale e i travisamenti dei traduttori propiziarono inopinatamente, sulla questione nevralgica delle consuetudini visive, il cortocircuito tra due civiltà che avrebbero poi acuito la reciproca lontananza. Civiltà dello sguardo, quella occidentale, fondata sul primato dell'occhio e sulla sovranità del soggetto osservatore. Civiltà che privilegia la luce, quella araba, fedele al grafismo non iconico dell'ornamento.
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