Lo stato a una dimensione. George Bush e il nuovo corso della politica americana (2000-2005)
Fino a pochi anni fa la destra, negli Usa, si caratterizzava per la sua critica dello stato e il suo entusiasmo per tutto ciò che è spontaneo, privato, locale. La sinistra vedeva invece nella conquista dello stato e nel suo uso la via più breve per far accettare misure di assistenza e di ridistribuzione dei redditi. Col progresso economico, il tema della disuguaglianza delle fortune ha perduto molto del suo peso, tanto che negli anni settanta e ottanta la controrivoluzione conservatrice ha potuto conquistare la mente e il cuore degli americani, pur promettendo lo smantellamento dello stato sociale e la riduzione dell'assistenza ai più deboli. Poi il quadro è cambiato. Gli Stati Uniti, unica superpotenza di dimensione planetaria, hanno esteso il loro impegno in tutte le aree del globo e, di conseguenza, hanno ampliato e rafforzato le prerogative del governo federale. È così che la destra ha scoperto la bellezza di uno stato forte e dotato di poteri ampi su tutti gli aspetti dell'attività economica e sociale. In apparenza, si recitano ancora le vecchie giaculatorie sulla spontaneità delle forze di mercato, ma, in modo per ora sotterraneo, si vanno approntando gli strumenti di governance adatti a plasmare l'intera società in funzione delle esigenze della politica estera. Per la sua natura e le sue tradizioni, la società americana non appare disposta a subire un tale appiattimento, e sfugge alla rete sottile che tenta di imbrigliarla.
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