Razza del sangue, razza dello spirito. Julius Evola, l'antisemitismo e il nazionalsocialismo (1930-43)
Dottrinario estremo, nume indiscusso della nuova destra, non solo italiana, Julius Evola elaborò tra la fine degli anni Venti e il periodo della guerra una compiuta teoria razzista antisemita, che i suoi seguaci oggi tentano di dissolvere nel magma del suo pensiero. Invece, consegnato a opere al tempo famose ("Imperialismo pagano", "Il mito del sangue", "Sintesi di dottrina della razza"), e a una miriade di articoli sparsi su riviste e giornali del regime, l'antisemitismo evoliano è perfettamente enucleabile nelle sue dominanti speculative e nei suoi sviluppi politici, e più organico al fascismo di quanto vorrebbe la perdurante leggenda 'frondista' del personaggio. Quello che ancora nel 1942 appariva a Giorgio Almirante un "razzismo da buongustai", gravita attorno alla nozione qualitativa di razza dello Spirito, forza metabiologica di cui la razza del Sangue sarebbe puro "simbolo, segno o sintomo". Un'idea differenzialista e aristocratica che, se sdegna le teorie naziste alla Rosenberg perché naturalistiche e plebee, troppo appiattite sulla Volkgemeinschaft, la nazion-stirpe, accentua via via i contenuti antisemiti, e finisce per auspicare la convergenza tra fascismo e nazismo, entrambi portatori di una "coscienza imperiale" che restaurerà la Tradizione. Nemico di una rinata società dei Valori dominata dalla superraza guerriera romano-ariana è l'Ebreo, il detrito razziale, l'inclassificabile, anzi la vera antirazza, agente "di oscura contaminazione, di insurrezione permanente degli elementi inferiori". In lui si incarnano la modernità e i disvalori dell'Oro; su di lui frana anche, recuperando il determinismo biologico degli antisemitismi di sempre, l'evoliano razzismo dello Spirito.
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