Sulle tracce del drago.
Era il 1506 quando il ventitreenne Raffaello dipinse "San Giorgio e il drago", il piccolo grande quadro in cui si esprime appieno il suo straordinario talento e che rappresentò un passaggio determinante della sua evoluzione artistica. Riuscì nell'intento dando equilibrio alle figure e curando i particolari come forse non aveva mai fatto in precedenza: il santo a cavallo, la fanciulla in preghiera con le mani giunte, il drago, rabbioso e malvagio, le zampe striscianti e gli artigli da leone, la coda e il collo squamosi, le ali d'aquila e il muso da segugio. Il volto delicato del santo, con quell'espressione di tranquilla ma orgogliosa sicurezza, suggerì a Guidobaldo da Montefeltro l'ideale dell'eroe cavalleresco: donò la tavoletta al re Enrico VII d'Inghilterra in cambio del prestigioso titolo di cavaliere dell'ordine della Giarrettiera. Per un secolo se ne persero le tracce, poi il dipinto riapparve nella collezione di Carlo I e successivamente pervenne in quella della Grande Caterina, che affidò a Diderot il compito di acquistarlo per l'Ermitage di San Pietroburgo. Sopravvissuto a un incendio e alla Rivoluzione russa, fu infine venduto, dopo lunghe e rocambolesche trattative, dal governo sovietico a un grande collezionista americano. Ora è un vanto della National Gallery of Art di Washington. Di certo, né Guidobaldo né Raffaello avrebbero mai immaginato, cinquecento anni fa, che da quel prezioso omaggio sarebbe nata una storia affascinante, trapunta di intrighi e complotti, i cui protagonisti, determinati a possedere le più eccelse opere d'arte quasi a voler acquistare in qualche modo una sorta di immortalità, furono talvolta pronti a farlo con qualsiasi mezzo.
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