Sfaust
\Ogni libro, in particolare ogni opera teatrale di Testori è una sorpresa; se questa parola basta a esprimere lo sconvolgimento, e insieme il coinvolgimento, che suscita. Sembra che con un testo egli sia giunto ad un punto di tensione estrema della parola e dell'espressone, oltre il quale non è possibile spingere la ricerca. Invece, ogni volta, il confronto con una nuova materia lo conduce ad esiti ancora più avanzati, a vibrazioni ancora più aspre e rovescianti dei canoni espressivi. L'accostarsi al mito di Faust avrebbe potuto essere un'impresa di emulazione e di confronto con un tema illustre nella varietà infinita delle sue elaborazioni. Ne risulta invece qualcosa di più barbarico e insieme di più legato alle ragioni costanti, e sempre più profonde, dello scrittore; poiché quello che si inscena in "Sfaust" è il dramma del contrasto tra vita e alienazione, tra carnalità e disumanizzazione tecnologica, tra una corporeità in cui l'uomo si rivela completamente e un modello di esistenza che questa corporeità e umanità esclude. Siamo dunque al centro rovente delle motivazioni di sempre di Testori ed è del tutto coerente con questa idea che il fatto che l'infrazione di Sfaust, "doctor, sacerdos, magus" di tutte le scienze, destinatiario di una promessa di onnipotenza e di onniveggenza, consista nel ritrovamento appunto della carnalità che col Patto si era per sempre vietata. Ma tuffando, come per caso, le mani dentro il sesso femminile riscopre l'inevitabilità della carne e della creazione; della carne, che qui, sorprendendo forse tutti, si trasforma in enorme inno alla donna, in un inno che non conosce pressoché limiti. Ciò che è relamente nuovo non sono appunto le motivazioni (a esse l'autore è dolorosamente, quasi ossessivamente, fedele), ma l'invenzione drammatica e la sua corposissima elaborazione: un processo così tormentoso che, pur messi di fronte al suo esito felice, lo si legge ancora nel suo farsi, nel suo maturare, nella straordinaria eccitazione [...]