L'invenzione della verità
Che cosa può legare lo studioso d'arte John Ruskin, autore di libri che hanno improntato un'epoca, a un'ignota ricamatrice medievale di nome Anna Elisabetta? Nulla, apparentemente. John Ruskin è personaggio storico; Anna Elisabetta è un nome fittizio al pari della donna che lo porta e della cui esistenza tutto si ignora. Se mai fu viva, lo fu perché in una certa città della Francia è esposta una 'tapisserie' di commovente bellezza che qualcuno, attorno all'XI secolo, deve pur avere ricamato. E tuttavia, quanto più schietta e calda ci appare in queste pagine la ricamatrice, quanto più naturale dell'esteta misticheggiante che, ricco soltanto di pensieri e ricordi, osserva pressoché immobile la vita che gli scorre accanto e verso la quale egli tende la mano sempre in ritardo, sempre quando l'attimo propizio è fuggito. Anna Elisabetta, pur se il mondo - attraverso le cose, gli animali, le persone - le parla talora con una 'lingua ignota', ha con esso un rapporto istintivo, passionale, che la fa umana e vera; Ruskin, cui nessuna lingua doveva essere sconosciuta, rimane per tutto il racconto un 'contemplatore delle vette e delle nuvole'. Il ricamo che Anna Elisabetta 'crea' e la cattedrale che Ruskin 'contempla' sono entrambi labirinti i cui fili vengono tenuti, da una parte, dalla castellana-regina e, dall'altra, dalla Vergine dorata, ma il continuo gioco di rimandi e rispondenze fra tessuto e pietra fanno di tutto il libro un dedalo che irresistibilmente ci invita e ci sfida. Quale Arisanna eleggerà il lettore? Seguirà i cammini tracciati dall'autrice, col rischio di vedersi sbarrare il passo nel momento stesso in cui crede d'aver imboccato la giusta via, o si affiderà alla propria luce interiore, alla propria verità?
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