Ci vorrebbe un sassofono
Fedele alla sua penna feroce e dolente, sempre attento alle narrazioni degli ultimi in cerca di riscatto, Pino Roveredo ci offre una storia impietosa sulla durezza dell'esistenza e sulla capacità di reinventarsi. Quando suona un sassofono le guerre di scordano di scoppiare, i temporali di urlare e le disperazioni si dimenticano di addolorarsi. Claudia ha poco più di quarant'anni ma se ne sente addosso molti di più. È bella, ma non lo sa. La vita non è stata buona con lei. Spinta dalla figlia Giada e da un residuo senso del dovere, resta inchiodata al capezzale di Enrico, ancora suo marito ma solo sulla carta, con cui ha condiviso poco amore e tanta amarezza. Quell'uomo ormai non è altro che assenza per lei, «immobile come la trasparenza e distante come la luna scura». E così Claudia si piega allo strazio di dover ripercorrere le tappe di una vita di abbandoni, che chiedeva solo felicità e ha imboccato la strada della delusione. Certo, qualcosa di buono c'è stato, ma ormai la colonna sonora dei suoi giorni è il pulsare ipnotico dei macchinari a cui è attaccato colui che avrebbe dovuto amarla e onorarla. Lei sogna un'altra melodia, quella di un sassofono, che trasformi la stanza d'ospedale in un prato fiorito, in una fuga, un attimo, uno spiraglio di serenità. E forse, finalmente, il momento della rivalsa è arrivato.
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