Novelliere campagnuolo

Novelliere campagnuolo

Quando Ippolito Nievo nella primavera del 1855 si dedicò al romanzo «contadinesco» (Il Conte Pecorajo) e al racconto campagnolo il genere era praticato da oltre un decennio. Vi lavorò con originalità e nell’intento di distinguersi in primo luogo da Giulio Carcano condusse una sperimentazione vigile misurandosi con i maggiori modelli letterari, tenendo aperto il confronto con i lettori e con i periodici. Esordì su «La Lucciola» di Mantova con "La nostra famiglia di campagna", un testo programmatico che affronta la grande questione del distacco tra le classi superiori cittadine e le plebi rurali, ostacolo al percorso di unificazione nazionale, e al tempo stesso funziona da serbatoio di temi e di strutture narrative. Nel giro di poco tempo seguirono altri racconti, alcuni divenuti celebri come "Il Varmo e i filò di Carlone, vecchio bifolco di Fossato". Ambientati nel vasto paesaggio della pianura mantovana e in quello più vario del Friuli, preannunciano in molte pagine il Nievo maggiore, quello delle "Confessioni d’un Italiano" e di "Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale". Lo scrittore avrebbe voluto pubblicare in volume i racconti, ma sono stati gli studiosi a riunire le sue «novelle campereccie» includendo o escludendo dal novero Le Maghe di Grado e La corsa di prova (originariamente L’uomo fa il luogo e il luogo l’uomo). Della discussione si dà conto nel saggio introduttivo dove si spiegano, tra l’altro, anche le ragioni della scelta operata per questa edizione nazionale.
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