In viaggio da sola e con qualcuno
«Non saremo eroi come i grandi viaggiatori, ma resta il fatto che anche noi dilettanti non siamo niente male. Per quanto orripilante sia stato l’ultimo viaggio, non rinunceremo al prossimo, lo sa Dio perché.» Fino a un certo momento a Martha Gellhorn non era mai venuto in mente di scrivere di viaggi. E quindi in questo memoir, pubblicato per la prima volta nel 1978, sente di dover produrre delle «credenziali» per il lettore: cinquantatré Paesi visitati, più di un viaggio in ventiquattro di questi, con base di partenza in sette nazioni a undici indirizzi diversi. Da questa statistica desume una raccolta dei «migliori tra i viaggi peggiori», quelli da non dimenticare, quelli in cui la noia non è che una parentesi presto travolta da pericoli, difficoltà, avventure in cui lei, tra l’avventato e il noncurante, sembra sempre sfuggire al peggio per un soffio. Nel 1941 trascina Hemingway, il Compagno Recalcitrante, nella Cina in guerra per incontrare il generalissimo Chiang Kai-shek; nel 1942 naviga nei Caraibi in cerca di inafferrabili sommergibili tedeschi; un «viaggio di piacere» la porta ad attraversare l’Africa da ovest a est con mezzi di fortuna; un «impegno morale» la spinge nell’ostile Unione Sovietica, sedotta dalla prosa di una dissidente; un «libro che non prese mai forma» la conduce in una cisterna abitata da una comunità hippy, in Israele. Con trascinante ironia, la sua penna irresistibile attraversa cinque inferni terrestri, restituendo l’immagine di una donna che prende in giro la vita, mentre in ogni momento la mette a rischio per seguire il suo istinto più antico: guardare tutto con i propri occhi, senza fermarsi mai.