Alle cose stesse. Monologhi sulle forme del corpo e dello spazio
Che cosa si prova ad essere una voce disincarnata, un corpo abolito in uno spazio che collassa? A passare la vita in un pigiama-armatura per fronteggiare l’invasione dello sporco che attacca da ogni parte, dall’esterno ma anche dall’interno? A sentirsi una vibrazione evanescente estenuante congenita cronica, alla quale solo lo sguardo di un amante può dare consistenza e coerenza? Ad essere attratti e sopraffatti dal vuoto dei penetralia, le porte sacre attraverso cui si crede di accedere all’informe, eterno nascondimento della divinità nascosta? O una nuda presenza ripiegata su se stessa, lucida e insonne, che nella notte veglia su un brusio, un pulviscolo sonoro testimone di un eccesso? O una persona dalla sintassi stravolta, tormentata dal dubbio che il proprio intérieur – la carne – non sia abbastanza donna, e l’extérieur – il corpo visibile – non rispecchi abbastanza il proprio desiderio di femminilità? Cosa si prova ad essere una nuvola, dover abitare un corpo dai bordi fluttuanti, incessante metamorfosi, perenne sospensione di cui non si riesce a vedere la bellezza?