L'Italia di Giolitti
Fu definito in tanti modi: 'il ministro della malavita', per la maniera disinvolta con la quale 'guidava' le consultazioni popolari, 'l'uomo di Dronero', - dal nome del paese in cui era nato, in provincia di Cuneo -, fino al 'bolscevico dell'Annunziata', come lo bollò dalle sue colonne il 'Corriere della Sera', in quanto 'cugino del re', ma simpatizzante di sinistra. Come possiamo definirlo noi, oggi? Semplice: 'statista di razza', uno dei pochi, pochissimi di cui si possa vantarsi l'Italia dall'Unità ad oggi. E il suo nome si lega a un'epoca che egli gestì con sapienza e prudenza. Pose fine all'involuzione autoritaria in cui rischiava di precipitare il paese dopo il regicidio di Bresci; costruì il primo miracolo economico italiano, facendo nascere quasi dal nulla la grande industria; soddisfò i sogni di 'grandeur' coloniale, strappando la Libia all'Impero Ottomano; condusse l'unica politica sociale intelligente mai più vista nel belpaese. Un gigante, insomma. Ma poi si verificarono avvenimenti più grandi di lui: il colpo di rivoltella di Sarajevo non uccise solo un arciduca austriaco, ma l'intera Europa e un modo di concepire e fare politica. Tornò al governo nel 1919 e pose termine all'impresa di Fiume, ma poi dovette passare la mano. 'Exit Giolitti' si potrebbe scrivere come nelle tragedie shakespeariane, e dal palcoscenico della politica usciva non un uomo, ma un titano.
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