Iperione. La caduta di Iperione

Iperione. La caduta di Iperione

"Scritti tra il 1818 e il 1819, ""Iperione"" e ""La caduta di Iperione"" sono due magnifici frammenti somiglianti a ""una rovina nel deserto o alle ossa di un mastodonte"". In quegli anni Keats leggeva il ""Purgatorio"" di Dante, Wordsworth e soprattutto il ""Paradiso perduto"" di Milton, di cui ammirava il ""lusso poetico"" e il ""classico splendore"". Da Milton aveva appreso a raffigurare i Titani giganteschi, il solare Iperione che con passi irosi attraversa il suo palazzo d'oro splendente, e a fissare la bellezza dell'immagine nell'immobilità statuaria di Saturno e Teia. Il mondo degli antichi dei, ormai sconfitti dal divino Apollo, diventa nella poesia di Keats il simbolo di quel mondo classico primigenio che ora è solo ""...rozzo / resto del tempo antico / ... / un'ombra di magnificenza"", ""... ruderi enormi / di pietra o bruno marmo; il senso smarrito, / la sapienza svanita da gran tempo"". La tragicità sublime della caduta è distacco da un mondo ormai perduto, cui solo il poeta, ""cieco alla luce"", custode della memoria e capace di quel potere di visione che è un dono divino, riesce a dar voce. Il suo sguardo si spinge lontano, oltre il visibile, penetra il nucleo misterioso e segreto della vita stessa. La materia mitologica dell'opera diviene così allegoria della creazione di tutte le cose, dove il Principio dell'Essere è la Bellezza: ""... il primo in bellezza sia il primo in potenza"". Questa è l'eterna legge, il principio evoluzionistico che sovrintende al progresso sociale e individuale dell'umanità. Bellezza-perfezione, dunque, ma anche Bellezza-dolore che solo il poeta osa contemplare. E' infatti il riconoscimento della sofferenza che trasforma il poeta in una creatura apollinea ormai protagonista e voce narrante nella ""Caduta"". La poesia diviene in Keats traduzione dell'evento sublime e il linguaggio è una sorta di ""ieroglifico di bellezza"" e disperazione."
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