I viceré
I Vicerè (1894) non sono soltanto il capolavoro di Federico De Roberto, uno scrittore cui la definizione corrente di epigono del verismo siciliano sta davvero troppo stretta, ma anche uno dei grandi romanzi della letteratura italiana. Un romanzo che si colloca nella zona più inquieta della cultura di fine secolo, quando ai dogmi del positivismo e alla solida indagine naturalistica s'intrecciarono e vennero via via subentrando i veleni d'una sensibilità più incerta e problematica, il disagio e lo smarrimento nichilistico del Novecento. Litigiosi, cocciuti, avidi, bislacchi, pazzi, i nobili di Uzeda che, a dispetto del Risorgimento in Sicilia e della nuova realtà dell'Italia unita, resistono saldamente al potere, sono l'emblema di un'antropologia negativa, d'un pessimismo esistenziale prima ancora che storico-politico. E dietro il mirabile congegno narrativo s'intravede un paradigma letterario che dal canone tradizionale del romanzo come moderna epopea slitta verso la registrazione, necessariamente ellittica e persino divertita, della 'betise humaine', dell'insignificanza e della balordaggine universali.
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