La scuola della maldicenza. Testo inglese a fronte
L'entusiasmo per "La scuola della maldicenza" nella Londra del 1777 aveva un buon motivo: segnava l'addio alla più festosa stagione della commedia inglese. Da Aphra Behn a Richard Sheridan le commedie libertine, quelle tutte per ridere e le sentimentali, erano state specchio e gioco di quella società felice che si era accampata nel secolo più illuminato ma in fondo segreto, sigillato in se stesso, della storia europea. La sua perlacea ma opaca superficie non sopporterà l'intimismo appassionato del romanticismo, l'ansia di verità e l'individualismo eroico. La commedia celebra quindi consapevolmente la sua ultima cerimonia. Sheridan, irlandese, un po' smargiasso, un bel po' avventuriero, e anche sprovveduto, dopo aver raggiunto quasi i vertici del potere politico 'whig', finì alcolizzato e pieno di debiti. Morì nei primi anni dell'Ottocento, un secolo a cui era profondamente estraneo. Ma era figlio di teatranti, e aveva il teatro nel sangue: per fargli finire la commedia o la tragedia che era già in prova, bastava chiuderlo a chiave nella sua stanza di direttore, con una buona scorta di whiskey, e da lì la mappa della mal-dicenza, le sue vie e le sue strategie diventavano chiare, contrastate solo dalla nuova, doppia stupidità del suo 'fin de siècle': quella del sentimentalismo e della bontà naturale. A divertirci e inquietarci sono i suoi invidiosi, pettegoli, ipocriti, egoisti ed egocentrici che formano quel nido caldo di vipere che è il crogiolo della commedia. La chiacchiera malevola, mossa da invidia e interesse, passa dal salotto al giornale, sotto forma di consiglio amichevole, aneddoto pubblicitario, infine ambiguo suggerimento, diretto o implicito. E il discorso del 'ma' - come lo chiamò il celebre critico inglese William Hazlitt - che cementa la discordia della vita mondana e politica, ieri come oggi. Con note di Alberto Rossatti.
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