Slow Food. Una storia tra politica e piacere
Nato nelle Langhe, in un triangolo che tocca Bra, Alba e Barolo, quelle stesse Langhe dove nel 1986 morirono 19 persone per aver bevuto vino al metanolo, Slow Food conta oggi oltre 100.000 sostenitori in 132 paesi, con sedi sulle colline del Wisconsin o nel centro di Cleveland. Come ha fatto questo movimento sorto ai margini della sinistra italiana, tra l'Arci e «il Manifesto», allorché Carlo Petrini introduceva Valentino Parlato e Massimo Cacciari al culto dei vini piemontesi, mentre imperversavano «Milano da bere» e Reaganomics, a mettere radici in paesi con tradizioni e culture tante diverse come gli Stati Uniti, la Germania, la Romania post-comunista, il Messico? Come ha saputo suscitare l'interesse di ristoratori e intellettuali metropolitani, contadini e no-global, gastronomi autodidatti e chef professionisti, attirando contemporaneamente i consumatori edonisti del primo mondo e gli agricoltori diseredati del terzo? Le risposte stanno forse nella capacità di offrire - con il richiamo alla genuinità, ma anche al piacere del cibo - un'alternativa credibile alla globalizzazione della «fast life».
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