La bambina che non potè chiamarsi Esther. Storie di ordinaria ingiustizia ai tempi del nazismo
L'avvocato Seibert scopre per caso, in una rivista giuridica, una sentenza del 1938 emessa dalla Corte d'appello della Berlino nazista, dove si nega a un padre (un pastore evangelico) il diritto di chiamare la propria figlia Esther: dare a una bambina tedesca un nome ebraico - vi si sostiene - urta "il sano sentimento del popolo". La sentenza reca soltanto le iniziali dei nomi dei protagonisti e del luogo dove la vicenda si svolse, ma Seibert, che pure ha una figlia di nome Esther, vuole saperne di più. Inizia così, da questi scarni indizi, una ricerca appassionata che lo condurrà a rintracciare la famiglia Luncke e a ricostruire l'inutile battaglia giudiziaria. Ma oltre alla vicenda di Esther, che dovette chiamarsi Elizabeth, e a quella di Josua, che dovette chiamarsi Cuno, Seibert porta alla luce storie di aziende costrette a mutare la ragione sociale, di patrimoni alienati, di sfratti, di matrimoni "misti" annullati, di professioni e mestieri interdetti in un delirio di purificazione culturale e razziale. Storie vere, che ci mostrano come anche la giustizia civile cedesse al regime nazista, contribuendo alla preparazione della "soluzione finale".
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