Una giovinezza americana
All'ultimo libro, scritto poco prima di morire, Mary McCarthy ha consegnato il ricordo della propria giovinezza: otto anni, fra i tredici e i ventuno, ripercorsi in cerca degli elementi fondatori della personalità, delle tappe che segnarono il suo apprendistato alla vita. E'la storia di un'adolescenza dei tratti comuni: la scuola, l'università, le recite, le feste, gli amori furtivi in automobile, la sete di esperienze e il desiderio di piacere; niente di notevole se a viverla non fosse un'intelligenza già pienamente consapevole di sé, uno spirito 'fuorilegge' presto inteso a diseducarsi, ovvero a seguire una via autonoma e a salvare la propria orgogliosa anomalia nel mezzo di una provincia americana conformista e superficiale, intessuta di pregiudizi e manie. Nel lungo, divagante monologo che dà corpo a queste pagine la McCarthy segue però i passi di quell'adolescente con l'appuntita ironia che le è propria: non v'è compianto di sé nel ricordo degli anni in cui visse, orfana, sotto la rigida tutela dei parenti, non v'è elegia per il passato né, in definitiva il compiacimento dell'artista che componga il proprio "ritratto da giovane"; se ricorda le sue fantasie (quando sognava di farsi monaca o di diventare regina di Francia) o un tentativo di suicidio, i boy-friends o le ragazze del 'gruppo', è piuttosto uno sguardo senza indulgenza, felicemente feroce, quello che si posa su quel teatro d'ombre. Ciò che ne risulta è un libro stratodinariamente vero, e una testmonianza singolare da cui riaffiora il brusio di un'epoca, le passioni, i sogni, le liturgie e i valori di un mondo scomparso.
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