Pellegrini politici. Intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba
Attraverso più di mezzo secolo, dalla fine degli anni Venti fin quasi a oggi, le esperienze politiche dei paesi del socialismo realizzato hanno esercitato un'irresistibile attrazione sugli intellettuali d'Occidente. Lacerata da una sorta di intima schizofrenia, l'intellighentsia progressista d'Europa e d'America ha cullato l'irriducibile speranza di vedere superati, in una terra lontana, i modelli politico-sociali in cui essa viveva. L'aspettativa del nuovo, del migliore, del più giusto e più umano si è così tradotta in un genere turistico, il viaggio nel Paese dell'Utopia, e subito dopo in un peculiare genere letterario, il reportage fantastico-politico: la Russia di Stalin, la Cina di Mao, la Cuba di Castro e Guevara, il Vietnam di Ho Chi Minh si sono tramutati nel luogo mitico di una superiore fratellanza a di un progetto che finalmente prometteva di riunire ideologia e sentimento. Da André Gide a G.B. Shaw, da Edmund Wilson a Susan Sontag, da Sartre a Moravia, senza dire di una folla di scrittori, filosofi, sociologi, giornalisti, il 'pellegrinaggio' politico è divenuto l'occasione per illudersi di vivere un sogno a occhi aperti, in cui non si rado la generosa ricerca del nuovo si ribaltava, talvolta in modo grottesco, in giustificazione oggettiva dell'intolleranza, della violenza repressiva, del crimine perpetrato sotto le insegne del credo politico. L'autoinganno degli intellettuali di sinistra si è proiettato così sull'opinione pubblica, innescando un singolare - e forse emblematico - processo di misitficazione che a distanza rileva non soltanto tutte le ingenuità di un 'wishful thinking' collettivo, ma anche i tratti masochistici di un'irrimediabile alienazione.
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