Il divieto canonico di usura. Alle origini del «moderno»
Alle soglie dell'età moderna, diventa presto questione decisiva di politica del diritto la teorica del prestito di denaro a interesse. Percepiscono tale decisività prima di altri i più acuti teologi-giuristi della Chiesa cattolica del tempo. Essi appartengono alla corrente di pensiero della Scuola di Salamanca, epicentro della cosiddetta "Seconda Scolastica", riscoperta non innocente di San Tommaso. Il secolo decimo sesto dischiude loro prospettive profonde: la scoperta del Nuovo Mondo, l'immissione massiccia di metallo prezioso, offrono ulteriori impulsi all'homo oeconomicus che già nel Trecento si era affacciato. Sollecitata la comunicazione e i traffici, il denaro diventa ineludibile protagonista di un assetto che muove i suoi primi passi verso un mercato che già mostra di tendere ad organizzarsi secondo quella che oggi si ama definire la "globalità". L'idea di "capitale" - concetto avvertito in tutta la sua invadenza e impersonalità e, per ciò stesso, difficilmente assoggettabile ad un processo di moralizzazione - , l'idea di "investimento", che già avevano fatto apparizione con il primo abbozzo di sistema bancario, assumono adesso, con la facilitata circolazione della moneta, rilievo nuovo. Cresciuta quindi, in un processo di graduale, ma evidente , affrancamento dell''economia dalla morale, la disponibilità e la considerazione del denaro, cresce anche, nelle cure dei moralisti, la sensibilità al peccato di usura. E sullo sfondo si scorge alfine, nella elaborazione dei teologi-giuristi del ''500 , il tentativo di colmare o giustificare uno scarto emergente: da un lato il principio della caritas, nel suo medioevale modello agapico teso comunque a reclamare gratuità; dall'altro quello di una nuova aequitas. Valore, questo, comune per taluni significativi aspetti alla stessa, più tiepida, sensibilità riformata ove Calvino(pecunia pecuniam parit) già sta facendo scaldare il motore di un disinvolto sistema bancario.
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