Licenziare i padroni?
Per la prima volta dalla nazionalizzazione dell'energia elettrica, che ha gelato la Borsa per trent'anni, il grande capitalismo italiano pubblico e privato ha avuto dalla sua per un lungo periodo di tempo i mercati finanziari. La decisione dello stato di privatizzare le imprese pubbliche e le inchieste giudiziarie di Mani pulite hanno creato l'opportunità di aumentare il numero delle grandi imprese efficienti e di costruire una democrazia economica basata sulla trasparenza e la concorrenza. Alla prova dei fatti, invece, il capitalismo italiano ha meno protagonisti di prima: più grandi e più deboli, e questo perché i nuovi padroni del vapore hanno usato i soldi del mercato per regolare i conti fra loro, anziché investire nella crescita vera della grande impresa. Il bilancio è sconsolante. Tra il 1986 e il 2001, la Fiat, il primo gruppo industriale del paese, ha distrutto ricchezza per 27 mila miliardi di lire, la Montedison per 9 mila, Olivetti per 14 mila, Pirelli per 4 mila. Contrariamente ai pregiudizi, lo stato imprenditore può vantare ottimi risultati: l'Eni ha creato ricchezza per 66 mila miliardi, l'Enel per 13 mila, Telecom, addirittura, per 94 mila miliardi di lire. Ma ha avuto il vantaggio del monopolio, e dunque non rappresenta il modello vincente. Nell'Italia del centro-destra, che sogna il diritto al licenziamento senza giusta causa dei lavoratori, è arrivato il momento di chiedersi se, come e da chi lo stesso provvedimento possa essere preso verso gli azionisti di comando.
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