Selfie. Sentirsi nello sguardo dell'altro
Nell'epoca dei selfie riusciamo ad essere sicuri della nostra identità solo attraverso lo sguardo degli altri: sono visto dunque sono. Un'analisi allarmante di come sta cambiando il nostro rapporto con il corpo e con l'immagine di noi stessi. Ciascuno di noi ha due corpi, forse addirittura tre. Noi possiamo avere un'esperienza diretta e immediata del nostro corpo, possiamo "sentirlo": la carne è l'oggetto di questo sentire. Ma possiamo fare esperienza del nostro corpo anche "vedendolo" dall'esterno, come quando ci guardiamo in uno specchio oppure rappresentati in una fotografia. L'equilibrio fra queste due modalità garantisce una buona esperienza del nostro corpo e quindi una buona base per costituire la nostra identità. È grazie a questa proporzione che possiamo sentirci, e soprattutto possiamo sentire le nostre emozioni, che ci radicano in noi stessi e nel mondo. Esiste anche una terza modalità di fare esperienza del nostro corpo: sentirlo quando è oggetto dello sguardo altrui. È quello che succede quando scattiamo un selfie. L'equilibrio va in pezzi e, improvvisamente, abbiamo bisogno di una mediazione esterna per assicurarci della nostra identità. A garantirla è il pubblico: solo l'altro, colui che si trova altrove, può esserne il testimone. 'Videor ergo sum' - sono visto dunque sono. Giovanni Stanghellini dimostra che il selfie è il sintomo di un'epoca in cui omologazione culturale, sociale, identitaria e corporea vanno di pari passo. Sviluppare un rapporto diretto, singolare e necessariamente complesso con il nostro corpo, con la carne, è sempre più difficile. Così cediamo a un rapporto mediato e posticcio con l'immagine di noi stessi che ci restituisce uno sguardo estraneo, che valutiamo molto più del nostro.