Dava fine alla tremenda notte
Hans Memling, pittore di ricchi, pittore rassicurante e gentile, lascia la sua casa e la sua famiglia a Bruges e intraprende un immaginario viaggio in cui si imbatte in figure di dolore. Dalla Sicilia riarsa alla Spagna cupa di un altrettanto cupo Rinascimento, su su fino a una Germania gretta e ostile e poi più a nord verso le banchise di ghiaccio del Mar Glaciale Artico, Memling e il suo aiutante assistono e coesistono a personaggi vivi e morti che finiscono con il costituire, attraverso un vertiginoso collasso temporale, la Compagnia d'Europa, una banda di derelitti in cerca di una fine, di un buio che sia l'ultimo, estremo buio. E forse la luce di un ricominciare. A nulla serve la tenacia dell'arte, il tentativo di dar forma al dolore, ai visi, al sangue, alla corporeità a fronte di esistenze che gridano, attraverso la deriva dei secoli, la propria lacerata e lacerante presenza. E impotente è il teatro a mettere in scena lo stesso grido carnale. Memling e il suo assistente si trovano invischiati in cangianti realtà famigliari: quella incestuosa del muratore siciliano, quella lacerata di Pedro Consalvo e della moglie Maria - detta Spina di ferro - che porta sempre sulle spalle la pelle della sorella morta, quella monca dei fratellini tedeschi Hans e Guendalina, abbandonati dalla madre per un girovago teatrante e quella altrettanto monca della Donna vestita di rosso e delle sue due bambine. La Compagnia d'Europa arriva alla porta di un'altra famiglia tronca, quella di Memling: la moglie Anna, dopo tanti secoli, non riconosce il marito ormai vecchio e cieco ma saprà scrivergli una lettera di struggente amore. Marosia Castaldi raggiunge qui il vertice della sua ricerca espressiva e tematica, creando, con questa sua compagnia di miserabili, anche letteralmente a brandelli, una delle metafore più violente sulla volontà di finire che perturba la società contemporanea.
Momentaneamente non ordinabile