In fine
Meir è un ingegnere quarantenne di Tel Aviv. La sua esistenza, chiusa nei limiti di una banale quotidianità, viene sconvolta dall'improvvisa e quasi casuale presa di coscienza della morte, con cui si trova, inetto e disarmato, a fare i conti. Dal momento in cui gli vien riscontrato un lieve problema di ipertensione, tutto assume una prospettiva diversa e la vita gli appare distante ed estranea. L'iniziale paura si trasforma gradualmente in un terreno cieco e invasivo, mentre la parabola dell'ossessione lo conduce, ineluttabile, verso la fine. Intrappolato nella propria elusiva, forse fatale e forse inesistente malattia, Meir non trova altro rifugio che in un passato più o meno idilliaco annidato fra le strade e i muri della sua città, fra le pieghe di una terra promessa che rimane irraggiungibile. I fili della sua inquietudine lo conducono in Europa, lungo le tappe di uno sconnesso itinerario pervaso dal senso di perdita e del tempo sprecato, da desideri che si spengono anche prima di nascere in una'abulia priva di speranze. La cronaca di questo vagabondare sbandato tra Israele e L'Europa, tra visioni d'infanzia e profezie senza futuro, affonda nell'intimo di un mondo interiore sconvolto da una tragedia annunciata, dilatandosi nei versi di un'epica contemporanea che Shabtai ha saputo scrivere meglio di chiunque altro.
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