Viceconsole (Il)
Nella letteratura del nostro tempo, così spesso incline a una rappresentazione attenuata e felpata, a stili "minimalisti", a una fine e soffocata decenza nel velare ogni ordine di emozioni, Marguerite Duras porta, come una bella anomalia, la sua predilizione per ciò che è acuto, estremo, intollerabile. Come Balzac, la attraggono le contrapposizioni esasperate, le tensioni psichiche insostenibilmente protratte, gli atti anche criminali che illuminano con un subitaneo bagliore lo scenario della vita. Chi, in questi anni, ha scoperto la Duras attraverso "L'amante" e "Il dolore" ignora le frontiere di un'opera narrativa già vasta, e gremita di personaggi, ambienti, vicende che solo un temperamento fortemente visionario poteva evocare. Un'opera che può essere suddivisa in sezioni. In questo caso, "Il viceconsole" sarebbe collocato senz'altro, come "L'amante", nelle "Scene della vita in Oriente". D'altronde, come potrebbe non convenire, a un autore che ama i colori vivi e le pennellate energiche, un'Asia di fiumi e pantani, di monsoni che tingono d'indaco l'aria, di miseria senza confini e lussi più opulenti, illanguiditi e conturbanti che altrove? Alla Duras ne fecero dono un'infanzia e un'adolescenza indocinesi. Qui, siamo in India a Calcutta; e una piccola società europea, in bilico tra rispetto delle forme e cedimento a una deriva sensuale senza cui forse non potrebbe sopportare quei climi spossanti, ruota intorno alla fragile, incantevole, nevrotica Anne-Marie Stretter, moglie dell'ambasciatore francese, perfetta per seduzione e irrequietezza nelle prime brume dell'età. Si balla e luci sono accese, nell'ambasciata di Francia; ma appena fuori si accalca la folla dei mendicanti, dei lebbrosi, dei cani. Tuttavia non sono solo loro a testimoniare che la vita può non avere maschere, ed essere insostenibile.
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