Jane Eyre
«Vorrei tanto che non mi aveste inviato Jane Eyre. Mi ha interessato al punto che ho perso (o guadagnato, se preferite) un giorno intero a leggerlo. […] È certo opera di una donna. Ma di quale? Vi prego di porgere i miei omaggi e i miei ringraziamenti all’autrice del primo romanzo inglese (e quelli francesi non sono ormai che storielle d’amore) che mi sia riuscito di leggere da molto tempo a questa parte» (Lettera di William Thackeray all’editore di “Jane Eyre”, 23 ottobre 1847). «La scrittrice ci tiene per mano, ci costringe a percorrere la sua strada, a vedere ciò che lei vede, non ci lascia per un solo istante né ci consente di scordarla. In ultimo siamo pervasi, completamente pervasi dal genio, dalla veemenza, dall’indignazione di Charlotte Brontë» (Virginia Woolf). Il manoscritto di “Jane Eyre” arrivò per posta alla Smith, Elder, & Co. di Londra il 24 agosto 1847, inviato da un certo «Currer Bell». George Smith, l’editore, passò l’intera giornata della domenica a leggerlo, annullando ogni altro impegno, e il lunedì offrì allo sconosciuto autore la cifra di cento sterline per la sua pubblicazione. Sei settimane dopo, il 16 ottobre, il libro era stampato. (Le sterline sarebbero diventate, alla fine, seicento). Fu un immediato, strepitoso successo, sia di pubblico sia di critica. Il libro andò a ruba, ebbe una seconda edizione già in dicembre e una terza nell’aprile del 1848. In quello stesso anno uscì anche negli Stati Uniti, dove godette di uguale fortuna. La vera autrice, Charlotte Brontë, riuscì a mantenere l’anonimato per un certo periodo, poi dovette arrendersi alle fughe di notizie e divenne, suo malgrado, una celebrità. Era la prima volta che la protagonista femminile di un romanzo metteva il proprio «io» al centro, dichiarando di voler perseguire una vita conforme alla propria natura e ai propri più intimi desideri, senza sottostare all’autorità della tradizione, della bigotteria, del prestigio sociale e di alcuna altra norma imposta, tantomeno quelle legate al ruolo della donna. Era la prima volta, per di più, che l’eroina, contro ogni cliché, era una donna povera, bruttina e di modesti natali. La storia autobiografica che Jane racconta, retrospettivamente, al suo Lettore – quella di un’orfana angariata dalla ricca zia, abbandonata in una scuola per poveri, costretta a guadagnarsi da vivere come istitutrice, innamorata di un gentiluomo, ingannata, poi fuggiasca, ridotta a mendicare un tozzo di pane, infine ricompensata negli affetti, nella fortuna e nell’amore – avrebbe potuto diventare un romanzo vittoriano come tanti altri, di sapore antiquato. Charlotte Brontë, invece, spinta dalla propria esperienza personale e da una sconfinata immaginazione, ne fece un capolavoro immortale – la quintessenza del classico. Il romanzo era una novità anche per la sua prosa, schietta e lucida, talvolta perfino cruda, risoluta fin nella punteggiatura. «Solo un certo insieme di parole era lo specchio fedele dei suoi pensieri, – riferisce la sua amica, nonché prima biografa, Elizabeth Gaskell: – nessun altro, di significato apparentemente identico, sarebbe andato altrettanto bene». Su questa linea guida, per dare questa voce a Jane, è stata condotta la presente traduzione.