Moby Dick
Da più di un secolo e mezzo uno spettro si aggira nelle acque extraterritoriali della letteratura: "Moby Dick". Coalizzati in una sacra caccia, da allora non facciamo che braccarlo, per sottometterlo alle nostre interpretazioni, e questa caccia maniacale e consapevole, che è anzitutto una caccia a noi stessi, ci condanna. Protagonisti per noi dell'impresa: Ishmael, come l'esule del racconto veterotestamentario; Ahab, lo sciamano che ha viaggiato in altri regni restandone sfregiato e mutilato, non soltanto fuori, ma che da quel contromondo torna da iniziato: iniziato senza setta, mistico senza religione; il Pequod, una nave di pazzi governata da un pazzo furioso: la riprova è che come in ogni manicomio c'è chi parla lo shakespeariano; una ciurma d'ogni colore, razza, fede, dai quaecheri ai cannibali agli adoratori del fuoco; Moby Dick, Leviatano su misura per moderni, inafferrabile; e l'oceano mondo. Con questi elementi primitivi Melville compose in una stagione di creatività febbrile quello che è un romanzo d'avventura e un trattato gnostico, un saggio enciclopedico e una cosmogonia pagana, una fiaba mostruosa e un'allegoria intollerabile, un'epopea o una forma totalmente nuova: ma scientifico, religioso, filosofico o artistico l'intento - sempre di netto timbro eretico. S'inizia così a leggere, come Sinbad sull'isolotto si appresta a mangiare e accende un fuoco quando, a un tratto, il dorso dell'animale (che altro non era) s'inabissa portando tutto e tutti appresso a sé.
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