Mia madre, la mia bambina
"Ho dato da mangiare a mia madre. Mia madre, la mia bambina. Una cucchiaiata di latte e formaggio. Una bambina che mangia, a occhi chiusi, e la mia mano trema per l'emozione". La mano è quella di Tahar, il figlio, che ha studiato ed è emigrato a Lafrancia, dov'è diventato uno scrittore di successo. La bambina è Lalla Fatma, anziana e reclusa nella sua casa di Tangeri, attanagliata da un morbo che le porta via il presente, tradita dal Tempo che forse non passa, ma la scavalca, "l'aggira come se non contasse piú per nessuno". Lalla Fatma non esce mai dalla sua casa di Tangeri, la lascerà solo per andare nella tomba, come dice lei. Ma dal suo letto rivisita gli anni della giovinezza a Fès, rivive i suoi tre matrimoni, riceve al capezzale il padre morto di Tahar; fa morire e resuscita i propri figli. "Non ti vedo dal giorno del tuo funerale, mi sei mancato". Nella sua testa si mescola tutto. A nulla servono le medicine, amiche ingannevoli che scombussolano ciò che non curano; né le premure delle due domestiche, che la sua mente trasforma in potenziali nemiche, pronte ad approfittare della situazione. Dio ha voluto cosí, e non si può che rimettersi a lui. Così Tahar assiste impotente a questa bufera di allucinazioni e ricordi, al tentativo straziante e continuo di cercare un ordine che ormai sfugge, di rivendicare una lucidità perduta, di salvaguardare la dignità. E in silenzio raccoglie le reminiscenze stralunate della madre e le ricompone in un racconto pacato, che contrappunta i deliri materni ed è forse un modo per dire un'ultima volta il proprio amore di figlio.
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