L'immagine del ritorno
"Per quanto io fugga sarò sempre prigioniero di me stesso": con questo verso in mente Atiq ritorna a Kabul dopo quasi vent'anni di esilio. Il regime dei talebani è caduto e la sua città è ridotta a un cumulo di macerie. Come raccontare le emozioni del ritorno? Le persone lo fermano per sapere la sua storia e dire la loro. Ma le parole non sembrano sufficienti. Intorno a lui le ferite di Kabul. Ferite che sono state fotografate da fotoreporter e grandi fotografi, con risultati di grande riuscita estetica. Atiq, però, non è alla ricerca della bellezza, vuole vedere il dolore che la ferita rivela. Vuole una macchina che sia capace di 'uno sguardo'. Trova sul posto una vecchia camera oscura, un apparecchio rudimentale con cui vengono ottenute immagini che paiono venire da un altro secolo. Davanti alla camera oscura bisogna rimanere fermi, senza respirare, come in una prova generale della morte. Come se il presente in cui viviamo fosse già passato, e dal futuro del nostro sguardo potessimo osservare le tracce lontane di una tragedia meglio che con qualunque apparecchio moderno. L'immagine del ritorno, dopo vent'anni di esilio, non può essere restituita dalle copertine a colori dei settimanali o dai libri dei 'grandi fotografi'. Il passato dell'esule si sovrappone al presente del ritorno, l'identità perduta non si riacquista, resterà per sempre doppia, fuori e dentro la Storia, radicata e sradicata allo stesso tempo. E Kabul resterà per Atiq una città invisibile (insieme a Roland Barthes, Italo Calvino è il nume tutelare di questo viaggio): il desiderio è già un ricordo.