Un anno
Perdersi non è difficile. Basta svegliarsi una mattina e scoprire di dover fuggire, e nascondersi dalla propria vita, prendere gusto, o piuttosto abitudine, alla fuga, tanto da dimenticare a tratti e sempre più spesso cosa si fuggiva, da chi ci si nascondeva, e poi lasciarsi scivolare con dolcezza in un piccolo inferno provvisorio, che non è più fuga e non è più rifugio segreto, ma semplice errare. Traducendo questo romanzo di Echenoz lieve e misterioso, con il timore continuo di tradirne il mistero e la leggerezza, è impossibile non pensare in continuazione all'etimologia comune di "errare" ed "errore", perché la storia di Victoire nasce proprio da un iniziale sviamento della coscienza, un deragliamento dell'anima che la costringe a fare la valigia, ritirare un po' di soldi dalla banca, prendere il primo treno in partenza dalla stazione più vicina, e assentarsi dai luoghi e dalle persone della propria esistenza e vagare per un anno. E' un errare che inizia in treno, prosegue in bicicletta, in autostop, si conclude a piedi e le fa incontrare compagni non sempre amichevoli e fedeli, trascurare sempre di più la propria persona, e arrivare "nella notte, sotto la pioggia, in mezzo ai rovi, al freddo", sulla soglia dell'ultimo desiderio. Insieme alla protagonista, il fuoco del romanzo pare scivolare continuamente in avanti via via che la lettura procede, come quella foresta delle Lande che Victoire mette in movimento pedalando sulla sua bicicletta, un fuoco che si rivela poi disseminato per le pagine, negli spazi bianchi tra una parola e l'altra. L'errore iniziale infatti non è corretto dalla rivelazione finale, e l'anno passato a vagabondare non è spiegabile con gli strumenti della psicologia. Tra quotidiano e avventura tra ripetizine e variazione, Victoire cerca di vivere tutta in superficie, soltanto nell'ironia dello sguardo. Per dirla con una formula quasi pubblicitaria coniata anni fa da un critico francese: "Jean Echenoz vi offre lo spaesamento a [...]
Momentaneamente non ordinabile