Vivere ancora
Ruth Kluger ci offre una visione per molti versi inedita della vita in campo di concentramento: all'epoca della sua deportazione aveva infatti dodici anni. Non sono molti i testi che ricostruiscono i lager in quest'ottica. Ad Auschwitz (ma Auschwitz è solo la seconda tappa, preceduta da Theresienstadt e seguita da Christianstadt) una personalità non ancora del tutto formata ha reazioni diverse rispetto all'adulto. Cambiano le priorità, gli assilli, gli equilibri psicologici. Si tratta, pur in una situazione estrema, comunque di un processo di maturazione. Da qui lo sforzo dell'autrice di mettere in risalto anche gli aspetti "costruttivi" della sua esperienza, senza però nulla concedere a chi, magari senza rendersene del tutto conto, tende a vedere nell'Olocausto solo una delle tante atrocità del nostro secolo.Del resto Ruth Kluger non dimentica le problematiche che erano al centro della sua esistenza anche prima della deportazione. Integrando i propri ricordi e quelli, sovente falsati, della madre, rende un quadro preciso dell'atmosfera angosciante che regnava nella comunità ebraica di Vienna, dove il "segreto di cui gli adulti bisbigliavano" non era il sesso ma la "morte". Così come non mancavano le riflessioni critiche sull'immediato dopoguerra, in Germania e negli USA, quando è costretta ad accorgersi che pregiudizi ed emarginazioni razziali e sociali non sono finiti con il nazionalsocialismo. Scritto in un linguaggio sobrio, privo di cedimenti al patetismo e talvolta anzi ironico, "Vivere ancora" trae la sua forza dalla ostinata volontà dell'autrice di non celare le contraddizioni per quanto dolorose possano essere e di restituire una biografia nella sua interezza.
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