Stalin e la guerra inevitabile (1936-1941)
Sulla base di un'ampia documentazione d'archivio raccolta negli ultimi anni, l'autore sostiene che sui problemi di 'crises management' l'Urss staliniana fu seriamente condizionata dalla dottrina dell'inevitabilità della guerra, risalente a Lenin, e dalla tradizione dell'isolazionismo del sistema di Versailles, che venne rafforzata negli anni del Terrore. Viene così delineata una revisione delle tradizionali interpretazioni del principale atto della politica estera dell'Urss staliniana alla vigilia della guerra, il patto con la Germania nazista. Esso non rappresentò né una necessità, imposta dalla politica di appeasement delle potenze occidentali, né il risultato di un disegno concepito da tempo, sulla base delle affinità tra i regimi totalitari: fu invece l'esito di una concezione della sicurezza assai più rivolta a evitare un coinvolgimento nelle tensioni internazionali che non a preparare un disposistivo di deterrenza contro l'aggressività del nazismo.Il patto con Hitler non rappresentò infatti una garanzia di sicurezza, malgrado che nell'ottica di Stalin, dopo l'agosto-settembre 1939, una simile garanzia venisse illusoriamente vista proprio nella "neutralità" filotedesca, nelle acquisizioni territoriali, nella prospettiva di una "guerra di logoramento" tra gli Stati capitalistici: l'Urss venne esposta in meno di due anni a una brutale guerra di sterminio. Tuttavia, il patto con Hitler non rappresentò soltanto un punto di arrivo, ma anche un punto di partenza. Proprio negli anni delle crisi europee si formò la base della politica estera dell'Urss staliniana: una nuova dottrina della sicurezza nazionale, incentrata sull'identificazione della minaccia nel "sistema" degli Stati capitalistici, sulla concezione delle "sfere d'influenza" nell'Europa orientale, sulla prassi dello "Stato di sicurezza totale". La vecchia strategia di sopravvivenza dei bolscevichi generò così sotto Stalin una strategia di "guerra di posizione", destinata a restare sostanzialmente [...]