L'acacia

L'acacia

Una striscia di terra devastata, larga dieci chilometri, corre come una ferita da Nord a Sud al centro dell'Europa: la Prima guerra mondiale è appena finita, un bambino viaggia con la madre e con le zie alla ricerca della tomba di un ufficiale morto in combattimento, suo padre. Trent'anni dopo, nella stessa regione tra la Francia e la Germania, toccherà a lui sperimentare l'assurdità, l'insensatezza, la stupidità e la forza apocalittica della guerra. Fatto prigioniero, si salverà dal campo di concentramento, e ritornerà a casa continuando a ignorare il senso di ciò che ha vissuto: una sera, davanti a una finestra aperta, quell'uomo inizierà a scrivere i suoi romanzi, sollevando di tanto in tanto la testa dal foglio bianco per veder ondeggiare e palpitare le foglie di un'acacia. Non è un caso che Claude Simon nel suo discorso d'accettazione del Premio Nobel 1986 abbia citato le parole di Valéry: "Se mi si chiede che cosa ho voluto dire, rispondo che non ho voluto dire, ma fare, e che è questa intenzione di fare che ha voluto ciò che ho detto". L'acacia trova il suo punto d'arrivo in un fare che si oppone al distruggere della guerra, in una vocazione letteraria che nasce dall'esperienza più annichilente che un uomo possa attraversare. E prima e tra le guerre, in mezzo ai buchi neri della Storia, scorre, carico di minacce, il tempo della spensieratezza (la famiglia della madre, la Belle Epoque) o della cieca dedizione al lavoro (la famiglia del padre, l'attaccamento alla terra). Tra guerra e pace non c'è però in questo romanzo, un salto logico, uno stridere, o una contrapposizione: i due tempi sono immersi nello stesso fluire di parole e vengono raccontati con l'affabulazione insieme appassionata e distaccata, il "dinamismo della descrizione" e il rifiuto delle gerarchie cronologiche, che (citando ancora il suo discorso di Stoccolma) possono essere considerate le cifre vere dello stile di Simon: "Non dimostrare, ma mostrare, non riprodurre, ma produrre."
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